La resa di Giovanni
Giovanni è un vasaio artigianale dotato di una discreta abilità, che ama lavorare e che si dedica anima e corpo alla propria professione.
Da sempre, egli passa tutto il giorno al tornio, ai pennelli e alla fornace. Settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.
La zona in cui Giovanni vive è un sobborgo cittadino molto frequentato, a tutte le ore, da uomini e donne di ogni età.
Or non è molto che la gran parte di quelle persone era anch’essa, al pari del nostro vasaio, impegnata in un ampio ventaglio di occupazioni, sia agricole che artigianali.
Da qualche tempo, però, Giovanni sta notando che i più hanno cominciato ad alzarsi tardi la mattina e a passare sempre meno tempo nelle proprie officine, preferendo, alle solite attività, il bighellonare in strada e il bere al bar. A dir la verità, qualche volta il nostro ha la sensazione di essere rimasto l’unico a lavorare nel suo pezzo di mondo (anche se fa quasi fatica a dirselo, visto che ciò gli pare persino assurdo).
Cosa ancora più anomala, la apparente riduzione del tempo lavorato dalle persone è coincisa con un aumento delle auto in circolazione (e delle loro cilindrate), della qualità del vestire dei passanti e, soprattutto, del numero di vicini impegnati in attività sportive.
Ma non è tutto: passando appresso ai vari capannelli o fermandosi occasionalmente presso qualcuno di essi, il nostro artigiano si accorge che la gente ama ora discettare, con enfatica competenza, di luoghi esotici e lontani, di esclusivi centri benessere e, soprattutto, di raffinati percorsi enogastronomici.
E ogni volta che egli tenta di portare il discorso sulla qualità della creta o sulla tipologia di legna che meglio si adatta alla cottura dei propri vasi, gli interlocutori, anche coloro i quali fino a qualche tempo prima dimostravano grande interesse professionale per quegli argomenti, fanno veloci allusioni ai gravi danni che gli evasori fiscali portano all’equità sociale, per poi cambiare immediatamente discorso.
Non sapendo come interpretare questa serie di novità, Giovanni decide di soffocare l’insicurezza che gliene deriva immergendosi ancora di più nel lavoro.
E siamo all’attesissimo giorno del mercato cittadino.
Come sempre, per l’importante occasione, il nostro vasaio si alza di buon’ora e, avvolti con cura nella carta gli ultimi vasi prodotti, si avvia di buon passo verso il luogo degli scambi.
L’aria frizzante dell’alba infonde nell’artigiano una grande energia che, mescolandosi alla chiara coscienza di avere operato per il meglio, gli restituisce la promessa di buoni affari.
Epperò, nel fondo rimane una certa inquietudine: come faranno i vicini, si chiede Giovanni, a portare i loro prodotti alla vendita, visto che nell’ultimo periodo essi hanno passato più tempo in strada che nei rispettivi laboratori?
Per questo, egli teme di trovare il mercato deserto e di non potere scambiare al meglio i propri vasi.
Ma si sbaglia.
Giunto in prossimità della grande piazza che ospita l’evento, infatti, il vasaio vede tantissimi acquirenti contendersi eccitati i prodotti esposti sulle bancarelle.
Questo, naturalmente, gli ridà fiducia, anche se non può ancora spiegarsi cosa essi possano avere da scambiare.
Avvicinandosi ancora, egli nota che tutte quelle persone, nel tentativo di attirare verso di sé l’attenzione dei venditori, sventolano freneticamente spessi mazzi di foglietti di carta.
E anzi, più passa il tempo e più compratori si aggiungono alla mischia, maggiore diventa la quantità di foglietti che ciascuno estrae dalle proprie tasche, per garantirsi il possesso dei beni esposti (tutti, fra l’altro, importati da paesi lontani).
Questa novità incuriosisce molto Giovanni che, decidendo di vederci chiaro, ferma un passante di sua conoscenza e gli chiede di mostrargli uno dei misteriosi pezzi di carta.
Una volta ottenutolo, l’artigiano non può credere a ciò che vi legge sopra: “Il vasaio Giovanni si impegna a fornire un vaso in cambio di questo biglietto”.
In calce, una firma: il Governatore.
Egli ferma altre persone e a ciascuna chiede di potere esaminare i fogliettini in suo possesso, trovando, ogni volta, la stessa dicitura.
Credendo di vivere un incubo, il nostro amico decide di rivolgersi all’autorità.
Imballati velocemente i vasi, egli si dirige di corsa verso il palazzo del Consiglio, chiedendo di poter parlare urgentemente con il Presidente.
“Signore,” gli si rivolge ansioso, non appena riesce a incontrarlo “qualcuno sta contraendo debiti a mio nome, senza che io ne sappia nulla”.
Il Presidente non pare sorpreso.
“Lo so,” gli risponde “ma in qualche modo dovevamo pur fare”.
“Fare cosa?”.
“Vede, lei è apparentemente rimasto l’unico a creare ricchezza in città e noi abbiamo questioni urgenti da risolvere”.
“Che genere di questioni?”.
“Faccende di solidarietà, giustizia sociale, uguaglianza”.
“Sinceramente non riesco a seguirla”.
“Non importa che lei riesca a capirmi. Non abbiamo bisogno della sua approvazione, i nostri obiettivi sono alti, ben più alti di quanto lei possa immaginare”.
“Mi scusi, ma i vostri obiettivi finanziateli con il vostro lavoro”.
“Il nostro lavoro è proprio quello di fissare gli obiettivi alti.
E lei è solo un egoista insensibile che, scommetto, non ha mai neppure letto Kant.
Comunque, in effetti, tutti quei biglietti hanno sollevato un po’ di malumore presso l’Imperatrice che si è convinta che lei non riuscirà mai a soddisfare tutte le richieste di nuovi vasi che le verranno fatte”.
Questa è l’unica cosa di un qualche senso che Giovanni sente da quando, ore prima, si è svegliato.
“Per questo,” prosegue il Presidente “ecco qua: le confisco la metà dei vasi, così rassicuro l’Imperatrice sulla sua solvibilità”.
“Ma questi sono solo sei pezzi. La fuori ci sono milioni di promesse di pagamento!”.
“Su questo sapremo coordinarci al prossimo incontro con Sua Maestà. Buongiorno”.
Il vasaio rimane con la bocca spalancata a guardare il nulla.
Ma si riprende subito: corre a casa a recuperare i magnifici manufatti che aveva messo da parte per finanziare la propria vecchiaia e, scavata una profonda buca in giardino, ve li seppellisce con cura.
Poi sale in camera, tira fuori dall’armadio una vecchia tuta da ginnastica, si infila delle scarpe da tennis ed esce per fare jogging.
Appena fuori dal cancello di casa, vede alcuni coetanei che passeggiano lungo la strada.
Si aggrega al piccolo gruppo e comincia a discorrere, divertito, di quanto sia piacevole la sauna nel vicino stabilimento termale e di come la cantina dell’amico di un amico sappia gestire alla perfezione il processo di fermentazione del vino rosso.
Il giorno successivo, dopo un’intera nottata passata a leggere Kant, egli espone un cartello “In Vendita” di fronte alla porta del laboratorio e poi si reca all’ufficio di collocamento per richiedere il sussidio di disoccupazione (adesso che non ha un lavoro è un suo diritto): 20 buoni per ritirare quegli stessi vasi che egli non produrrà più.
Già, ma ora che anche Giovanni (cui, come si è visto, piace lavorare, ma che non è un babbeo) ha abbracciato la scelta estetizzante e solidale di una vita a debito chi pagherà il conto?
Beh, questo ce lo devono dire i professoroni nostrani e gli ambiziosi euro nanerottoli, tutti tasse, cellulosa e crescita equa.
Al riguardo, noi abbiamo una sola certezza: ciò di cui quei dottoroni stanno discutendo da mesi tra Bruxelles e Francoforte non è economia (di essa, fino a ieri, si occupava Giovanni), ma, al più, banale ragioneria frammista a demagogia finto etica.